La band di Jaz Coleman suona potente e apocalittica sin dal primo disco. Anzi, soprattutto su questo, poiché il debutto omonimo rimarrà il loro vertice artistico, in una carriera fatta di repentini alti e bassi. “Killing Joke” ha la statura del classico: la ferocia protestataria del punk viene incanalata in brani squadrati, eretti contro il sistema e l’uso spersonalizzante che questo fa della tecnologia. Nella solenne cavalcata per synth pulsante di “Requiem” e nelle squassanti danze tribali post atomiche di “Wardance” e “The Wait” si realizza un suono a cavallo fra industrial e post – punk, sempre però condotto tenendo presente legami melodici che rendono le composizioni dei Killing Joke più fruibili rispetto a quelle di Throbbing Gristle e Cabaret Voltaire, solo per fare due nomi. Il segreto è nella scansione martellante di basso e batteria e nei riff riconoscibili della chitarra. In poche parole, un grande album, la cui influenza si farà sentire sino ai tempi di Ministry e Nine Inch Nails.
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