A seguire il monumentale “Physical Graffiti” (1975), con “Presence” i Led Zeppelin tornano a una maggiore semplicità di scrittura, per quello che probabilmente è il disco più vicino ai loro esordi hard blues da molti anni a quella parte. Tre quarti d’ora che filano scorrevoli e, in un certo senso, risaputi; l’ispirazione è ancora alta, ma per la prima volta non affiorano spunti innovativi. Nonostante non tutti i brani siano memorabili, sono comunque presenti tre numeri da maestri: la possente cavalcata chitarristica di “Achilles Last Stand”, oltre dieci minuti sorretti da un riff ciclopico di Page e dall’eccellente interpretazione vocale di Plant; il rifacimento di un tradizionale canto gospel come “Nobody’s Fault But Mine” in chiave prepotentemente hard rock; infine il lento blues rock super elettrificato di “Tea For One”. A guardarlo in prospettiva, “Presence” mette addosso un po’ di malinconia; i Led Zeppelin non scriveranno mai più un altro studio album di tale caratura e, dopo l’uscita del modesto (per i loro standard) “In Through The Out Door” (1979), la band si scioglierà nel 1980 in seguito alla morte del batterista John Bonham.
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