Con “Berlin” Lou Reed sembra volersi liberare di alcune maschere protettive e rivelare il suo vero volto. Sembra, perché quando si parla dell’ex Velvet Underground il concetto di ‘io’ è sempre labile, inestricabilmente connesso agli infiniti camuffamenti che caratterizzano l‘indefinibile psiche del Nostro. Certo è che questa sorta di concept album sulla disgregazione patologica del rapporto di coppia e la perdita di tutto quanto ci possa essere di più caro nella vita (cfr. “The Kids”), rispecchia inevitabilmente il fallimento del matrimonio di Lou, naufrago quasi compiaciuto in un mare di droga e depressione. Bandito ogni ammiccamento all’airplay radiofonico presente nel precedente “Transformer” (1972), “Berlin” verrà capito da pochissimi, stroncato dai critici di Melody Maker e Rolling Stone e rifiutato dal pubblico statunitense (solo in UK otterrà un buon successo). Colpa di arrangiamenti alle tastiere gonfi di sordido estetismo, livide marcette da cabaret mitteleuropeo alternate a sciabolate di rock ‘n’ roll alla Velvet Underground, contaminate a loro volta da frequenti aperture jazz (presenti i fratelli Brecker a tromba e sassofono), ballate intrise di pessimismo allo stadio terminale e un senso di rovina ineluttabile che violenta ogni singola nota del disco. Ma a distanza di quarant’anni se ne può apprezzare il vero valore, quello di un’opera tra le più cariche di vero malessere che il Novecento ci abbia consegnato. “In questo disco ci siamo uccisi a livello psicologico. Eravamo così immedesimati in esso che è stata dura uscirne“; parole di Reed.
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