Armstrong non sbucò certo dal nulla, anche se ascoltando queste registrazioni sembrerebbe di avere a che fare con un alieno, ancora oggi. In realtà il giovane Louis crebbe nella New Orleans dei primi del Novecento fra enormi difficoltà e ai limiti dell’indigenza (era costretto a mangiare gli avanzi dei ristoranti nei quali sua madre faceva la cameriera), ma avendo sempre la possibilità di assimilare nuova musica, dal primo blues al ragtime ai grandi pionieri del jazz: uno di questi, King Oliver, fu il suo mito, e dopo un lungo apprendistato riuscì persino a suonare la cornetta nella sua orchestra. Quindi lo stile di Satchmo ebbe degli evidenti punti di riferimento, e per questo motivo è forse ancora più strabiliante constatare quanto il Nostro, trasferitosi a Chicago e formati gli Hot Five insieme alla moglie Lil (piano) e ad alcuni fra i migliori jazzisti dell’epoca, riuscì a rivoluzionare la musica americana in soli 5 anni, dal 1925 al 1930. La sua fu una rivoluzione copernicana, che chiuse l’era del “jazz primordiale” e spianò la strada allo swing, al bebop e all’intero corso della moderna musica popolare (non è un caso se nel 1990 venne introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame). Dalla polifonia dei primi ensemble si passò ad uno stile in cui era il solista il vero centro gravitazionale della sintassi sonora, ed ecco che capolavori assoluti quali “Potato Head Blues” (una delle pochissime composizioni ideata dal solo Armstrong), “Heebie Jeebies” (primo esempio di canto “scat”), “Wild Man Blues”, “Muskrat Ramble”, “Alligator Crawl” e “Basin Street Blues” (con la celesta al posto del pianoforte) si aprono agli ineffabili interventi della cornetta di Louis, lirica e carnale al tempo stesso, in grado di mostrare perfettamente i due volti dell’ansia vitale più incontenibile e della malinconia più struggente. Celestiale e terrena, come nella maestosa “West End Blues“, uno dei picchi più alti nella storia della musica (non del Ventesimo Secolo, dell’intera umanità) e Nona di Beethoven del jazz.
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