E’ difficile paragonare i dischi solisti di Manu Chao a quelli della sua band di provenienza, i Mano Negra. Perché i presupposti sono diversi: insieme al gruppo, l’artista francese di origini spagnole pensava, sopra a tutto, a indagare il suono. In proprio, invece, la posta più alta è rappresentata dalla denuncia sociale e da rivendicazioni politiche. Alla resa dei conti questo è “Clandestino“: un disco politico, nella vecchia tradizione del cantautorato impegnato di casa nostra. E il grande successo che riscuote in Italia non è affatto casuale. Certo la musica è ben diversa da quella dei cantautori degli anni Settanta: qui dominano accordi latini e ritmi blandamente reggae, anche se il sound è ridotto all’osso, oltremodo scarno e, spesso, basato su piccole frasi ripetute in modo minimalista (“Bongo Bong”, l’hit internazionale). Questo per veicolare il messaggio al maggior numero di gente possibile. Nel disco sono presenti pure un paio di estratti dei discorsi del Subcomandante Marcos, giusto per fugare ogni dubbio sull’appartenenza politica di Manu Chao. Che è onesto al 100% nei suoi propositi, e se in quegli anni le canzoni di “Clandestino” passeranno fra le mani di parecchi “rivoluzionari della domenica”, beh questa non è certo colpa dell’autore.
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