Marilyn Manson – Mechanical Animals

Dopo la rabbia senza filtri di “Antichrist Superstar” (1996), arriva il momento del ripensamento della stessa sotto altre forme. Più sfumate e subliminali, eppure non meno efficaci. Brian Warner/Marilyn Manson si tramuta in una sorta di David Bowie dell’industrial rock, e l’immagine androgina che campeggia fin dalla copertina di “Mechanical Animals” lascia subito intendere che qualcosa è cambiato nella musica della band. Tanto più che la copertina ‘alternativa’ è intitolata ai fantomatici Omēga and the Mechanical Animals, e la memoria si riannoda automaticamente a Ziggy Stardust e i suoi Ragni da Marte. Le vecchie sonorità non vanno perse del tutto, piuttosto vengono inglobate in composizioni più smussate e atmosferiche, che anestetizzano i riff più duri attraverso strutture elettroniche maggiormente ipnotiche e fluttuanti. La foga di “Rock Is Dead” è una delle poche eccezioni a un modus operandi che procede per lenti crescendo densi di pathos e suggestione, ideali bolle sonore in cui scorre vischioso il nettare glam. Si sta pur sempre parlando di metal, e le chitarre permangono fragorose e distorte, tuttavia brani come “Great Big White World”, “The Dope Show”, “The Speed Of Pain”, “I Don’t Like The Drugs (But The Drugs Like Me)” e “Coma White” sarebbero stati completamente fuori contesto nel famoso predecessore. Quel che conta è che “Mechanical Animals” è un’opera superba, dimostrazione del fatto che Warner è un musicista vero e non solo un “fenomeno da baraccone”, pregiudizio che non verrà cancellato neppure da un altro ottimo album, “Holy Wood (In The Shadow Of The Valley Of Death)” (2000). Peccato, piuttosto, per quel che verrà dopo: fra sbandamenti del leader e crisi interne alla band, bisognerà aspettare “Born Villain” (2012) per riavere i Marilyn Manson al pieno della forma, almeno in studio.

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