Partito da lidi elettronico/sperimentali con i Third Eye Foundation, le cui sonorità vengono in parte riprese nel debutto solista “The Mess We Made”, con “Drinking Songs” il bristoliano Matt Elliott s’immerge nello spleen più cupo possibile. Intonando sette litanie (l’ottava e ultima traccia, “The Maid We Messed”, è una rielaborazione del disco precedente) per pianoforte notturno, violino agonizzante, canto terminale e altri strumenti acustici ugualmente depressi. Un pessimismo cosmico paralizzante, affogato in immagini d’assenzio e bordelli d’inizio Novecento, ma per nulla passatista ed estetizzante, anzi in grado di parlare agli uomini del 21esimo secolo. “The Kursk”, brano dedicato all’equipaggio affogato nel sottomarino russo, è sicuramente il più spettrale, doloroso e agghiacciante del lotto, ma pure “C.F. Bundy”, “The Guilty Part” e “A Waste Of Blood” non scherzano in quanto a sconforto esistenziale. Pare, a volte, di aver a che fare con un Tom Waits del Vecchio Mondo: mentre il primo, specie nei suoi dischi degli anni Settanta, pescava a piene mani dalla tradizione jazz, blues e folk americana, reinterpretandola in una personalissima “night music”, così Matt Elliott fa suo e reinterpreta uno sterminato patrimonio di chanson francesi, suggestioni gitane, ballate nordeuropee, cabaret alla Kurt Weill, tradizione Klezmer e tentazioni cameristiche. Componenti che risalteranno maggiormente nei dischi successivi, ma che in “Drinking Songs” vengono trasfigurate da uno stato d’animo tanto sfinito quanto sincero.
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