Quando pubblicano “Deserter’s Songs“, gli statunitensi Mercury Rev sono ormai una band di lungo corso. Dopo anni spesi a perseguire uno strambo incrocio di psichedelia e alternative rock, Jonathan Donahue e compagni cambiano registro e ottengono il loro maggior successo, artistico e commerciale. Il gruppo non rinuncia ai toni acidi e onirici che lo contraddistinguono sin dagli esordi, ma accanto ad essi inserisce maggiori aperture melodiche e una grossa gamma timbrica che permettono alle canzoni di “Deserter’s Songs” di svilupparsi, tenere e grandiose al tempo stesso. Una sorta di congiunzione fra psych rock e dream pop quasi orchestrale che produce i suoi maggiori effetti nell’enfasi raccolta di “Holes” e nella classicità senza tempo di “Goddess On A Hiway”. L’opera guadagna un disco d’oro nel Regno Unito (nonostante provenienza e radici, questa versione dei Mercury Rev offre un sound più inglese che americano) e il suo successo coglie di sorpresa il gruppo stesso, che prima della pubblicazione del cd era totalmente allo sbando e sull’orlo dello scioglimento. Il futuro porterà altri buoni dischi, nessuno però in grado di rivaleggiare con “Deserter’s Songs”.
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