In un anno che non sembra lasciar molto spazio al pop, il nuovo album di Michael Jackson fa piuttosto bene. “Dangerous” vende quasi quanto “Bad“, schizza al numero uno in tutto il mondo e rilancia la figura del Re. Invero un po’ appannata, così come la musica: a fianco di buoni pezzi come “Black Or White” (il cui video per l’epoca fu davvero avveniristico) e “Give In To Me” (ospite Slash) iniziano a spuntare un po’ troppi filler, brani che cercano di avvicinare il fulgore dei capolavori targati anni Ottanta, ma risultano permeati di stanchezza. La stanchezza di Michael, sempre più in balia dei profittatori di turno, incapace di comprendere quello che gli sta accadendo poiché estraneo al suo mondo scollegato dal reale. Sintomi di un male dell’anima che non fu mai diagnosticato né curato (ma a chi interessava davvero cosa potesse provare l’autore di “Thriller”?), aggravato un paio d’anni dopo dalle prime accuse di pedofilia, rivelatesi poi infondate. Meglio. Fondate solo sul denaro che molti speravano di ricavarci, dimostrando infine che Jackson non era più visto come una persona, piuttosto un pupazzo da squarciare per estrarre l’imbottitura di quattrini. Nessuna sorpresa se dopo “Dangerous” l’artista pubblicherà appena due album da studio in quasi vent’anni, peraltro piuttosto mediocri, avvitandosi in una condizione di malessere psicofisico che lo porterà alla prematura scomparsa, avvenuta nel 2009 ad appena 50 anni. Sulla sua figura ognuno è libero di pensarla come vuole, quel che è certo è che all’uomo Michael non è mai stata data una seconda chance.
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