Dire che i Muse siano i Queen del Terzo Millennio è ormai cliché abusato, banalità. Eppure a volte ciò che è banale risulta vero, e questo è il caso del paragone fra la Regina e la band di Matthew Bellamy. Ovvio che quest’ultimo non è la reincarnazione di Freddie Mercury, né si tratta dell’erede di Brian May alla sei corde. Incontrovertibile, però, che il modo nel quale il trio accosta atmosfere magniloquenti, oasi intimiste, scampoli di progressive e botte hard rock/post hardcore sia molto simile all’attitudine al melange stilistico inscritta nel DNA degli autori di “Bohemian Rhapsody”; in comune c’è quel pizzico di follia che induce a spingersi oltre il limite e osare commistioni azzardate, rischiando spesso di cadere nel pacchiano e nel pomposo oltre la soglia della decenza. In realtà non facendolo quasi mai, per merito di un talento al di fuori del comune. Non equivochiamo: i Queen rimangono irraggiungibili. Ciononostante “Origin Of Symmetry“, secondo album per Bellamy, Wolstenholme e Howard, merita un plauso sincero e convinto. Oscillare fra tastierone romantico/spaziali, voce ora teatrale ora in falsetto, chitarre violentemente distorte e melodie avvolgenti è un lusso che pochi si possono permettere. I Muse sono fra quei pochi.
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