Molti metallari attribuiscono a “Nevermind“, detonatore per eccellenza del successo planetario del grunge, la colpa dell’affossamento del metal negli anni Novanta. Critica oltremodo ingenerosa. Prima di tutto perché la vitalità che sottogeneri come death e black avranno nel corso del decennio sarà sotto gli occhi di tutti; in secondo luogo i Nirvana, lungi dal voler danneggiare chicchessia, forniranno invece un’incredibile ribalta per i suoni duri di ogni forma e specie, tanto che la prima metà della decade vedrà un profluvio di dischi belli pesanti in cima alle classifiche di mezzo mondo, fatto mai accaduto prima e che non si ripeterà mai più successivamente. Certo neppure Kurt Cobain, Dave Grohl e Krist Novoselic si sarebbero mai aspettati che un terremoto di proporzioni così gigantesche potesse scaturire dalla pubblicazione del loro secondo album (primo per Grohl), l’ultimo nella storia del rock a spostare realmente gli equilibri tanto del mainstream quanto dell’underground. Neanche la Geffen aveva idea di quel che gli stava passando per le mani, tanto che per gli AD dell’etichetta vendere 250mila copie del disco sarebbe stato già un ottimo risultato. Alla fine le copie di “Nevermind” smerciate in tutto il mondo supereranno i 30 milioni, di cui oltre 11 soltanto negli Stati Uniti. Un successo abbacinante, che contribuì a devastare ancor di più la già fragile psiche di Cobain e a far arrivare nelle camerette di moltitudini di adolescenti gli accordi scarni ma sinceri e possenti dell’inno generazionale “Smells Like Teen Spirit”. Oltre a un corredo di altre splendide canzoni, giocate sul filo del rasoio fra esplosioni di rabbia incontrollata puramente noise – punk (la delirante “Territorial Pissing”, il battito incalzante e furioso di “Breed”, le stilettate di “Stay Away”), digressioni quasi power pop (i Beatles riletti dai Melvins nel mid tempo di “In Bloom”), altalene emotive oscillanti fra depressione ed esaltazione momentanea (“Lithium”), ballate acustiche ora cupe e plumbee (“Polly”) altre volte rarefatte e misteriose (“Something In The Way”, con bordone di violoncello) e confessioni a cuore aperto (“Come As You Are”, dall’indimenticabile riff iniziale soffuso e ‘acquatico’). La produzione di Butch Vig è pulita e bilanciata (non a caso a Kurt non piaceva molto), e ha sicuramente dato una grossa mano al successo del lavoro; eppure non spegne affatto la forza di questi pochi accordi e della voce del leader, che anzi risuonano ancor più vibranti in tutta la loro urgenza, confusione e autenticità. Senza nessuna posa o atteggiamento artefatto, i Nirvana si presentavano per quel che erano, e in una scena pop/rock sempre più condizionata da stereotipi la loro fu una mossa davvero rivoluzionaria. Condivisa certo da altri esponenti del circuito alternative (allora davvero alternativo, oggi invece stereotipato com’erano diventati l’hard rock e il glam metal ai tempi), con la differenza che i Nirvana potevano contare sul più grande autore di canzoni di quell’epoca.