Sono un duo, chitarra e batteria. Un’unica traccia di 45 minuti, interamente strumentale. Un assolo ripetuto per tutta la durata del pezzo a velocità folle, il quale però è soggetto a continue mutazioni di timbro, ritmo e struttura, supportato dalla batteria lanciata in contorsioni math rock inumane. Dal canto suo la chitarra non poteva suonare più metallica e urticante di così, tutta protesa in stilettate che fanno male alle orecchie. Praticamente la lezione del minimalismo di Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich, ecc. (ma anche dei Velvet Underground di “Sister Ray”) trasposta nel metal e nel grind. Suona come una versione più dura e progressiva dei primi Oneida, quelli di “Sheet Of Easter”, ma lo si potrebbe vedere anche come gli Sleep di “Jerusalem” suonati a 300 all’ora, quindi come una traslazione dello stoner – doom più lento e magmatico in un contesto affine al postcore/mathcore più visionario ed al già menzionato grindcore. Prima di “Ov” non si era mai sentito nulla di simile. Non lo si sentirà neppure dopo.
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