“Ha un suono vecchio e nuovo, proprio come il suo aspetto”; così Lester Bangs parla di Patti Smith e del suo esordio discografico, “Horses”. Bisogna ammettere che il buon Lester di cantonate ne ha prese parecchie, nel corso della sua folle (ma inimitabile e profetica) carriera di critico musicale; in questo caso, però, ha saputo cogliere perfettamente l’essenza del disco e della sua autrice. Già, perché la Smith, un passato da poetessa underground che stava canalizzando in senso rock sulle assi del mitico CBGB’s newyorkese, locale che tanto darà al punk e alla new wave, con “Horses” realizza il classico album – cerniera, quello in grado d’imporsi nella storia grazie alla sua incredibile capacità di gettare un ponte fra passato e futuro, destabilizzando il presente. Prodotte da John Cale, sono otto composizioni che pullulano di vecchi eroi, da Jim Morrison a Jimi Hendrix passando per gli stessi Velvet Underground (la meravigliosa cover di “Gloria” di Van Morrison galoppa sfrenata, quasi fosse un pezzo garage dei bei tempi), ma che allo stesso tempo pulsano di una vita non ancora schiusa, la quale riesce finalmente a svelarsi proprio per merito di Patti. Rock duro e puro, che celebra per l’ultima volta il movimento beatnik e così facendo lo manda definitivamente in soffitta, preservandone però alcune tossine che spara direttamente in vena al montante fenomeno punk. Al di là della sua portata storica, “Horses” è ancora adesso un’opera di una bellezza straziante, in cui il canto della Sacerdotessa del Rock (soprannome davvero fuorviante) sa presentarsi simile a quello di una menade invasata e un attimo dopo sostenere il tono lirico della “spoken poetry”, persino nel corso dello stesso brano: accade in “Land”, nove minuti suddivisi in tre parti che sbattono fra il languore del pianoforte e l’isteria della chitarra elettrica, e si precipitano incoscienti nel dirupo finale di “Elegie”, malinconico poema in note dedicato alla memoria di Hendrix. Immortale.
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