Dopo il transitorio “Animals” (1977), i Pink Floyd danno alle stampe il loro ultimo album veramente significativo. Il gigantesco doppio “The Wall” è però esclusivamente pilotato da Roger Waters, che in queste quattro facciate ha modo di sfogare tutti i suoi incubi più angoscianti, in grado di far precipitare l’atmosfera di brani come “Another Brick In The Wall” e “Comfortably Numb” in una sorta di spettrale padiglione manicomiale per melanconici all’ultimo stadio, nonostante il suono mantenga la consueta magniloquenza e levigatezza. Il Pink Floyd sound si arricchisce di qualche piccolo dettaglio pescato dalle ultime correnti musicali, in particolare ambient e disco, ma mantiene quella cifra stilistica che ha guadagnato ai tempi di “The Dark Side Of The Moon” (1973); è peculiare che un suono sì onirico e maestoso, ma al contempo straordinariamente gradevole, venga utilizzato come veicolo per alcuni dei quadri più spettrali del rock di fine anni Settanta. Con il successivo “The Final Cut” Waters toccherà il fondo della sua depressione esistenziale, ma non l’illustrerà altrettanto bene come in “The Wall“; dopo il suo abbandono, alla band rimarrà solo l’esoscheletro in technicolor, perdendo di fatto tutto il contenuto artistico, e si trascinerà stancamente per un paio di LP sino allo scioglimento, avvenuto nel 1995. È questo il lavoro di maggior successo dei Pink Floyd negli Stati Uniti, in grado di raccogliere 23 dischi di platino.
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