Dal suono più arioso e meno monolitico rispetto al predecessore “Surfer Rosa“, merito anche del nuovo produttore Gil Norton, “Doolittle” è probabilmente il più importante disco alternative rock pubblicato nel 1989. In queste 15 tracce emerge del tutto la creatività folle e sovreccitata di Black Francis, il suo peculiare sense of humour che maltratta allo stesso modo morte, disgrazie, pulsioni autodistruttive e religione, la sua musicalità obliqua e raffinatissima, nascosta sotto una coltre di pseudo spontaneismo naif. Quel che fa la differenza è però l’insieme timbrico, ora dosato sin nei minimi dettagli: dalla voce talora enfatica, talaltra sussurrata e ancora declamante e poi persino urlata di Francis, al basso inclassificabile di Kim Deal (perfetta anche come seconda voce), alla batteria propulsiva di David Lovering giungendo infine alla chitarra solista di Joey Santiago, prodigio di equilibrismo fra carezze indie pop e sciabolate punk/HC al curaro. Folletti si dicono nella ragione sociale, e in effetti i quattro di Boston non avrebbero potuto scegliere nome migliore per la loro band. Ancora una volta, è praticamente impossibile indicare brani particolarmente significativi a dispetto di altri: tuttavia si può compiere un ultimo sforzo citando “Debaser”, “Tame”, “There Goes My Gun”, “Wave Of Mutilation”, “I Bleed”, “Dead”, “Mr. Grieves” e “Monkey Gone To Heaven” come alcuni degli intarsi più pregiati di un’opera d’arte d’inestimabile valore. “Doolittle” entrerà nella top 100 statunitense e raggiungerà il disco d’oro; fosse uscito nell’era post “Nevermind” avrebbe venduto almeno il triplo.
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