Popol Vuh – Hosianna Mantra

Dopo aver vagato in uno spazio liquido con i primi due dischi di musica cosmica, il buon “Affenstunde” (1970) e il risplendente “In Den Garten Pharaos” (1971), Florian Fricke e i suoi Popol Vuh decidono di staccarsi dal cliché del krautrock elettronico e dominato dai sintetizzatori per creare questa sorta di sinfonia sacrale, in cui tutti gli strumenti (eccetto la chitarra elettrica) sono acustici e non c’è traccia di Moog o Mellotron. Neppure appaiono le percussioni, permettendo alla musica d’innalzarsi ancor più ieratica e impalpabile, sostenuta soltanto dai fraseggi classicheggianti del pianoforte e del clavicembalo, suonati dallo stesso Fricke, dell’oboe e del violino, messi in pacifica collisione con la voce di una soprano giapponese e i bordoni di tamboura, una varietà di liuto indiano simile al sitar. Con questi sparuti mezzi i Popol Vuh realizzano uno dei grandi capolavori del misticismo degli anni Settanta, punto d’incontro fra spiritualità occidentale ed orientale, da cui il titolo dell’album. Fra narrazioni bibliche e riletture del “Kyrie”, il centro dell’opera rimangono i dieci minuti della title – track, in cui una chitarra psichedelica degna dei Grateful Dead ondeggia fra i placidi accordi del piano e il canto di Djong Yun. Lungi dall’essere musica confessionale, “Hosianna Mantra” è una manifestazione totalizzante del divino che rinfranca lo spirito. Nelle parole di Florian, “una Messa per il cuore”.

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