Appena tre album in due decadi, questo il lascito dei Portishead (per ora, dato che la band è ancora attiva). Tempi di scrittura biblici, che però hanno fruttato una pietra miliare del trip hop (l’esordio “Dummy” del 1994) e altri due eccellenti lavori. “Third” esce a 11 anni di distanza dal precedente “Portishead”, e non è affatto una delusione. Anzi, riesce a sbaragliare il gap di tempi passati e successi legittimi legati ad un mondo sonoro ormai lontano. Invece, il gruppo guidato da Beth Gibbons e Geoff Barrow regala un’opera piena di ottime sensazioni, in un certo senso ‘nuove’. Due elementi rimangono il marchio di fabbrica senza tempo del trio inglese. Uno sintetizzabile in “immersione e apnea”. Se prima Beth e soci nuotavano in un magmatico e apocalittico dark, molto sepolcrale ma dalla chiara provenienza jazzy (dai campionamenti), ora la profondità investe ambienti industrial – spaziali dalle tinte metalliche e cupe in cui serpeggia un forte piglio Seventies – psichedelico. Il secondo è invece rappresentato dalle linee vocali della Gibbons, morbide e sofferte, riconoscibili a 100 km di distanza. Questi due elementi si rincorrono intrecciandosi negli undici brani, creando spigoli in chiaroscuro a loro volta trafitti e trapassati da afflati emotivi vellutati. La ricetta è vincente. Non ripetitiva. Non scontata. E distante da ciò che poteva essere comodamente autocelebrazione, easy listening (=vendite facili), o revival a tutti i costi.
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