Il lascito maggiore dei Radiohead, in termini d’innovazione, è probabilmente contenuto in “Amnesiac“. Sorta di erede più raffinato e rifinito di “Kid A” (d’altra parte entrambi i dischi provengono dalle stesse sessioni di registrazione), in soli 43 minuti è in grado di far convivere una tale mole di atmosfere e sentimenti contrastanti da lasciar stupiti a più di 10 anni di distanza (probabilmente l’effetto sarà lo stesso nell’anno 5001). Pensate solo alle prime due tracce: “Packt Like Sardines In A Crushd Tin Box” è elettronica cupa e spersonalizzante, tutta vissuta in stanze di panico; un secondo dopo arriva l’emotività straziata e straziante di “Pyramid Song”, in cui piano, archi e batteria jazzata (è lo stesso Yorke ad ammettere di essersi ispirato a una composizione di Charles Mingus) sorreggono magnificamente l’elegia del canto. L’intero “Amnesiac” è un continuo saliscendi in note di frammenti esistenziali sottratti all’oblio (cfr. le fonti d’ispirazione gnostiche), a volte sezionati da fredde lame di elettronica alienante (il trip hop mutante di “Pulk/Pull Revolving Doors”, gli sfasamenti virati ambient di “Like Spinning Plates”), altre invece innalzati da melodie di una delicatezza e profondità uniche (“You And Whose Army?”, “Knives Out”). Il tocco di genio finale, la processione jazz “Life In A Glasshouse” (New Orleans trasportata in un non luogo della Londra del Duemila), chiude un’opera somma, fra le più memorabili (l’unica?) del pop/rock ‘altro’ creato negli ultimi due decenni.
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