Gli Slint sono stati uno dei gruppi più importanti degli anni Novanta, sebbene il loro lascito si riduca a soli due LP e un EP. Di questi, però, “Spiderland” rasenta lo status di vera e propria opera d’arte, in cui la band formata da Brian McMahan (voce e chitarra), David Pajo (chitarra), Todd Brashear (basso) e Britt Walford (batteria) conia un nuovo stile espressivo edificato sull’implosione dell’hardcore. Ai tempi per questi 6 brani si parlava di post – hardcore, al massimo di slowcore o sadcore; il termine post rock arriverà solo qualche tempo dopo, ma è merito loro se un’intera schiera di epigoni penserà gli sviluppi della “musica giovane” in termini quasi antitetici rispetto a quanto fatto dai loro fratelli maggiori. “Spiderland” capovolge il principio della velocità a tutti i costi, rapprende le emozioni più violente in un intrico di arpeggi (il quartetto ne farà un’arte, ascoltare “Don, Aman” per sincerarsene), cadenze narcolettiche, crescendo mortificati sul più bello, vertiginosi intrecci fra chitarra, basso e batteria che solo raramente s’infiammano di distorsioni (“Nosferatu Man”), più spesso trascolorano in mesta elegia (“Washer”). È un urlo strozzato in gola quello che esprime la musica del gruppo di Louisville, un’emozione repressa nell’intimo che non riesce mai a fuoriuscire del tutto, la cui apoteosi è custodita nella gemma finale, “Good Morning, Captain”, straniante ipnosi in bilico fra Velvet Underground e Fugazi, catasta di accordi minuziosamente disposti e programmati per gonfiarsi e fingere di esplodere nella voce straziata di McMahan che chiude il pezzo urlando “I miss you”. L’arte dell’angoscia.
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