Con tutta probabilità il momento più alto nella carriera dell’artista afroamericano, cieco dalla nascita ma talento musicale dalla precocità strabiliante. A 12 anni, infatti, Stevie Wonder (nome d’arte, il cognome significa “meraviglia, prodigio”) incide il suo primo disco, “The Jazz Soul Of Little Stevie” (1962). Negli anni Sessanta, però, la sua produzione non si discosta molto dal R&B circostante, sebbene il livello di scrittura sia superiore a quello della maggior parte dei suoi colleghi. Wonder deve aspettare la ‘maturità’ e i primi anni Settanta per rivelarsi totalmente. “Talking Book“, dell’anno precedente, è già un capolavoro, ma è con “Innervisions” che Stevie si supera, scrivendo uno dei tre o quattro dischi di soul assolutamente irrinunciabili. Rispetto alle opere coeve di Marvin Gaye il suo stile fa meno affidamento sugli arrangiamenti orchestrali (d’altra parte stiamo parlando di un polistrumentista dall’immenso talento), mentre a livello vocale preferisce evitare il falsetto e concentrarsi su un cantato più naturale, d’istinto. Differenze a parte, ciò che importa è la qualità superba delle 9 canzoni, che si confrontano con temi importanti quali razzismo, droga, spiritualità, ma che non disdegnano di parlar d’amore, come da tradizione Motown. Sul versante sonoro, le meraviglie sono molteplici: Wonder passa dal funk futurista di “Higher Ground” al soul imbevuto di fusion di “Living For The City” (geniale qui l’uso del synth, degno dei Weather Report) sino a giungere alla lievissima ballad “Visions” con una versatilità quasi aliena. Su tutto, poi, spicca il taglio innovativo dato a ogni singola traccia, che fa di “Innervisions” uno dei principali punti di svolta della black music e del pop che verrà.
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