The Residents – Meet The Residents

Ancora oggi non si sa con precisione chi si celi dietro la sigla Residents, nonostante la formazione sia ancora attiva e nel corso di più di quarant’anni di carriera abbia pubblicato decine di album. I principali responsabili del progetto dovrebbero essere due polistrumentisti/musicologi, Hardy Fox e Homer Flynn, provenienti dalla Louisiana e trasferitisi a San Francisco nei primi anni Settanta, ma è impossibile stabilire chi si sia avvicendato al loro fianco nel corso dei decenni né quanta parte della musica dei Residents sia direttamente ascrivibile a loro. D’altra parte i concerti della band, che il più delle volte si presenta in quartetto, avvengono dietro teloni che lasciano intravvedere solo le sagome dei musicisti, i quali in alternativa si presentano sul palco mascherati da enormi globi oculari, o da creature marine, o da chissà cos’altro. Una scelta radicale, diretta conseguenza della “linea dell’oscurità” che il gruppo ha sempre perseguito, sia per farsi beffe del music biz sia per mettere la musica in primo piano. “Meet The Residents“, con l’indimenticabile copertina – parodia di “Meet The Beatles!”, è l’album di debutto del complesso, una delle opere più importanti nella storia della musica moderna. Le basi di partenza sono i collage sonori del Frank Zappa più iconoclasta, il dadaismo free blues di Captain Beefheart, la psichedelia estrema dei Red Crayola, il minimalismo di Steve Reich e certe intuizioni ‘rumoriste’ di John Cage. Tutto questo materiale, però, viene sviluppato in una forma del tutto inedita, e con un gusto per la parodia e la dissacrazione che esplode in ogni singola nota, come dimostra la “cover” allegramente deturpata e resa irriconoscibile di “These Boots Are Made For Walkin'” di Lee Hazlewood, prima traccia delle 12 presenti nel disco. A questa seguono 40 minuti abbondanti di bizzarrie sonore di ogni tipo, che organizzano in piccoli e spastici poemi sonori decine di musiche differenti: free jazz metallico, swing da big band, garage rock mutante, funk grottesco, percussioni di improbabili orchestre Gamelan indonesiane, tonfi e rumori di presse, folk smembrato, blues squartato, improvvise impennate orchestrali sottolineate da voci di soprano afflitte e cori altisonanti, voci oscure che lasciano il passo a pianismi classici che si trasformano in boogie alieni, tamburi africani e processioni di fiati nepalesi, noise rock ante litteram, fruscii e rumori di fondo di ogni specie. L’influenza di questa immensa sarabanda sonica è incalcolabile: dalla new wave al punk, dal lo fi (la produzione è volutamente ‘sporca’) all’indie rock più creativo sino all’industrial, migliaia di musicisti guarderanno ai Residents come a dei maestri assoluti. Un solo esempio: la voce da papero con la rinite presente in “Guylum Bardot” e il sottofondo strumentale di un clavicembalo schizzato fanno immediatamente pensare al funk metal dei Primus ed alla voce di Les Claypool. Tutte queste cose sono abbastanza note. Quello che invece non è quasi mai stato abbastanza sottolineato è il divertimento che riesce a procurare l’ascolto di “Meet The Residents”: per nulla pomposo o cerebrale, il sound di questo capolavoro è stimolante come pochi altri. Ogni minuto ti chiedi che cosa potrà succedere in quello successivo, e ogni volta sei piacevolmente sorpreso. È come se il suono ti nutrisse e tu riuscissi a mangiarlo con le orecchie, e questa è una delle più belle sensazioni possibili.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *