L’esordio degli Smiths sembrò apporre un sigillo sulla bara della new wave, ormai dissoltasi in mille rivoli diversi, ora svilita tramite un synth pop troppo banale, altre volte evolutasi in tutt’altre direzioni. Il gruppo di Manchester andava contro ogni assunto dell’ormai vecchia onda: le tastiere affioravano solo per contornare di sfumature ramate alcune canzoni (“Reel Around The Fountain”), il centro del discorso musicale risiedeva nelle delicate trame jingle jangle di stampo Sixties della chitarra di Johnny Marr, fra i musicisti più influenti e geniali degli ultimi trent’anni, mentre il punto focale della poetica della formazione gravava tutto sulle spalle del dandy Morrissey, la cui voce salmodiante da muezzin dei sobborghi inglesi narrava la propria tormentata vita interiore in quadretti che spesso assumevano significati universali, in grado di comunicare qualcosa d’importante a moltissimi adolescenti forse un po’ troppo sensibili per il mondo d’allora (a ben vedere, di sempre). Senza mai scadere nel patetico, i testi dell’artista erano anzi riscattati da un sottilissimo senso dell’umorismo, unico nel suo genere. Ma, anche prescindendo dalle parole, la musica di “The Smiths” rimane fra le più seminali di sempre, in grado di formare migliaia di band indie/alternative pop, quasi tutte inferiori all’originale. La prova sono i limpidi fraseggi tra chitarra, basso e batteria di brani storici come “You’ve Got Everything Now”, “This Charming Man”, “Hand In Glove” (con armonica) e “What Difference Does It Make?”.
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