L’omonimo esordio degli Stone Roses è stata la colonna sonora della “Second Summer of Love” di Manchester. Anche se sarebbe meglio parlare al plurale, perché il periodo che vide la città e, subito dopo, l’Inghilterra intera alle prese con i rave, in cui a furoreggiare era la nuova elettronica da ballo importata da Chicago (leggi, l’acid house di Phuture e Fingers, Inc.) e mischiata all’MDMA, si estese a cavallo fra l’88 e l’89; ovvie le ripercussioni su tutto il decennio che stava per giungere. Dal canto loro, Ian Brown, John Squire, Mani e Reni non producevano certo electro; anzi, la formazione voce, chitarra, basso e batteria era la più classica possibile, e le loro influenze andavano dai Beatles ai Byrds a moltissimo del rock dei Sessanta. Eppure. Eppure c’era una tendenza all’ipnosi e alla ripetitività che andava d’amore (è proprio il caso di dirlo) e d’accordo con i gusti dei giovanissimi d’allora. Tendenza elevata al cubo negli 8 minuti della conclusiva “I Am The Resurrection”, la cui coda strumentale sprizza all’impazzata funk e ritmo da dancefloor ‘acido’. Piaccia o no, un album epocale che sfamerà il brit pop degli Oasis, e non è un caso se Liam Gallagher li considera la miglior band del mondo.
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