Assieme a quelli di Led Zeppelin e King Crimson, l’esordio degli Stooges è stato il più importante avvenuto nel 1969. “The Stooges” potrebbe esser letto come una versione in chiave heavy garage degli incubi ‘arty’ contenuti nei primi due dischi dei Velvet Underground; e infatti è proprio John Cale a produrlo, a suonare la viola nel delirio paranoico di “We Will Fall” e il riff di piano boogie nella perversa “I Wanna Be Your Dog”. Sono neppure 35 minuti che spalancano le porte alle malebolge delle periferie urbane più degradate degli States, dominati dai riff spinti allo spasimo del wah wah e del fuzz del chitarrista Ron Asheton (che sovrappone all’handclapping di “1969” un assolo di psichedelia corrosa e violentissima) e dalla voce lacerata e deteriorata di Iggy Pop (allora ancora Iggy Stooge), che passa dal gorgoglio strozzato all’urlo belluino nel corso dello stesso pezzo. La furia epilettica di “No Fun” (che verrà ripresa dai Sex Pistols), gli incontenibili impulsi sessuali di “Ann” e “Little Doll”, le scariche garage punk di “Real Cool Time” e “Not Right” sono l’epitome del nichilismo e, al tempo stesso, il suo superamento, a causa della furia ciclopica e del vitalismo di cui sono intrise. In questo senso, si tratta di un’opera meno pessimista rispetto a come viene giudicata comunemente. Di sicuro prefigura il punk e il metal con una sicurezza e una spavalderia uniche, ponendosi già al di là di questi generi che ancora dovevano nascere. “The Stooges” è avanti di decenni rispetto al tempo in cui è stato messo in note (distorte).
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