Lasciano all’apice della forma, i The Verve. Dopo questo disco il quartetto resisterà ancora un paio d’anni e un po’ di concerti, fino a quando i contrasti fra Richard Ashcroft e Nick McCabe diverranno insanabili e la rottura si rivelerà inevitabile. Esclusa la recente e poco significativa parentesi di “Fourth” (2008), il vero testamento dei britannici è “Urban Hymns“, capolavoro di coesione stilistica in cui è possibile reperire sia rock ballad classiche come “The Drugs Don’t Work” e “Lucky Man”, sia quei bagliori psichedelici che già avevano fatto la storia del gruppo: “Catching The Butterfly” e “Neon Wilderness” intridono di acido scampoli di shoegaze, mentre la trascinante “The Rolling People” lo fa con il funk e l’hard rock dei Settanta. L’inno della collezione rimane però “Bitter Sweet Symphony”, in cui il tema d’archi modellato su “The Last Time” degli Stones – ci saranno notevoli strascichi legali – proietta il brano verso vette quasi poetiche. Proprio nell’anno in cui il big beat elettronico stava pensionando il britpop, “Urban Hymns” metteva d’accordo tutti.
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