I White Stripes dei coniugi (ma divorzieranno in corso d’opera) Jack e Meg White non sono stati tante cose. Non sono stati dei virtuosi dei loro strumenti, rispettivamente chitarra e batteria. Non sono stati particolarmente originali. Non sono stati i capofila di nessuna rivoluzione musicale. Sono però stati fra i più sinceri adepti del verbo garage rock, quando il revival di questo aureo filone della musica popolare era ancora circoscritto a livello underground, dando quindi la stura a parecchie formazioni vogliose di recuperare i vecchi, immortali accordi che furono di Stooges e Rolling Stones, e prima ancora di Robert Johnson. Meno idiomatici di Gories e Oblivians, ma più di loro capaci di azzeccare riff, strofe e ritornelli metabolizzabili da un vasto pubblico, con il terzo album “White Blood Cells” hanno fatto il botto a colpi di traballante blues elettrico, gargarismi proto punk e folk scarno ed essenziale. Esattamente quel che ci voleva per dare un po’ di varietà ad un panorama rock traboccante di iperproduzioni da studio e suoni sin troppo patinati.
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