L’unica minima critica che, forse, si potrebbe muovere a “Mule Variations” è la sua eccessiva prolissità (70 minuti). Ma è pure vero che su 16 brani nessuno è un filler, tutti partecipano del grandissimo ritorno di Waits alla musica dopo 6 anni di silenzio discografico. Stiamo probabilmente parlando della migliore opera di Tom dai tempi di “Rain Dogs” (1985). Nelle “variazioni del mulo” c’è tutto il suo mondo, a partire dal brutale inizio: “Big In Japan” disarticola il rock a suon di fiati jazz/rhythm and blues, chitarre affilatissime e sezione ritmica elastica (gli ospiti d’onore sono i Primus al completo), con il leader a offrire una delle sue versioni vocali più scartavetrate di sempre. Poi. “Lowside Of The Road” illumina un malmesso scorcio di periferia, “Hold On” è la ballad perfetta per darsi fiducia nei momenti di maggior sconforto, “Get Behind The Mule” un folk blues Beefheart-iano da paura, “House Where Nobody Lives” country che si tinge di soul, “Cold Water” commozione ‘hobo blues’ allo stato puro…ovviamente si potrebbero elencare tutte le tracce, ma bastano questi piccoli accenni per mostrare la straordinaria varietà e caratura di quello che è ormai un classico nella discografia dell’artista di Pomona. Semplicemente, un immenso affresco della migliore tradizione musicale americana alterato da uno dei più genuini iconoclasti della nostra epoca.
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