Laddove “Swordfishtrombones” rappresentava un meraviglioso saggio di discontinuità e trasbordava l’artista al di là delle Colonne d’Ercole, in “Rain Dogs” Waits fissa al meglio la sua rinnovata vena creativa. Che, ancora una volta, sbalordisce e lascia attoniti per la generosità con cui l’ex cantore dei night più malfamati sa far collidere i materiali più disparati. In “Rain Dogs” sfilano 19 ‘canzoni’, coacervi di suoni sghembi, strumenti bizzarri (oltre ai quasi ‘banali’ fisarmonica, marimba, conga e harmonium compare pure la sega suonata con l’archetto) e rumori assortiti che spolpano sino al midollo rock, folk, blues, country, musichine circensi, jazz degli anni Venti, danze delle più improbabili e persino echi mitteleuropei via Kurt Weill. L’abilità di Tom è quella di saper organizzare tale caos assoluto come se si trattasse della cosa più facile del mondo, impedendo di far precipitare nell’insensatezza brani che, avessero una nota in meno o in più, probabilmente finirebbero in polvere. E invece “Singapore”, “Clap Hands”, “Cemetery Polka”, “Jockey Full Of Bourbon”, “Big Black Mariah”, “9th & Hennepin” e “Gun Street Girl” sono miracoli d’equilibrio e bellezza concreta e astratta allo stesso tempo. Mentre “Downtown Train” è il più bell’apocrifo springsteeniano di sempre e “Time” una superba ballad senza tempo. Chapeau, ecco uno dei più grandi geni della musica americana di fine Secolo.
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