Uscito nel 2011, “We All Bleed“, terzo studio album dei Crossfade, è uno di quei dischi che definire sottovalutati è poco. La storia della band di Ed Sloan parte col botto: anche se si fa aspettare parecchio (ci sono almeno 10 album tra i primi progetti di Sloan insieme al bassista Mitch James, tra cui anche The Nothing), il debutto omonimo del 2004 li proietta nell’iperspazio (diventerà Platino negli States nel giro di un anno) e li propone come perfetto punto d’unione del post-grunge con echi nu-metal. Basta sentire l’opener “Starless” e i mega singoli “Cold” e “So Far Away” per rendersi conto del colossale potenziale commerciale del combo: Riff cazzuti, voce pazzesca di Sloan e presenza scenica notevole. Se vi interessa, le mia preferite di quell’album in ogni modo sono “Colors”, “The Deep End” (parecchio P.O.D.) e “No Giving Up”.
Come purtroppo però capita spesso, il secondo lavoro non bisserà i risultati del primo. Conseguenza? Crossfade droppati dalla label e inversione emozionale devastante per Sloan. Parliamoci chiaro: la formula dell’alternative metal di quegli anni non consentiva troppe divagazioni sul tema. Oltretutto era già stato detto molto in materia, la tendenza di “Falling Away” evidenziava un approccio più riflessivo (cfr. “Someday”, vicina ai Seether, e titletrack) rispetto al testosteronico debutto, evidenziando anche una stanchezza e una pochezza compositiva difficilmente discutibile. Tendenza che si ritroverà, portata alle estreme conseguenze in “We All Bleed“, autentico capolavoro fuori tempo massimo per una scena oramai sepolta. Ma non per questo meritevole del disinteresse totale a cui andrà incontro.
Dietro alla batteria c’è Will Hunt col suo classico pestare ultra-loud, la produzione se la giocano Les Hall e lo stesso Ed Sloan. L’atmosfera è oscura, plumbea e l’album trasuda sofferenza in ogni passaggio. Tematiche affrontate senza giri di parole, una tensione di fondo che non si può sconfiggere e una manciata di brani che colpiscono dritto in faccia, pescando sì dalla tradizione alternative e post-grunge, ma andando ad affondare anche a livello di costruzione nel progressive puro (basti ascoltare l’esagerata “Make Me A Believer”). Se i singoli “Killing Me Inside” e “Prove You Wrong” sono tra i pochi pezzi minimamente conosciuti al di là dell’Oceano, è il nucleo centrale a sconvolgere e ad affascinare: “Lay Me Down”, “Dear Cocaine”, “Suffocate” (con un incipit a tratti Paradise Lost-iano), “I Think You Should Know” pongono Ed Sloan tra i cantanti più clamorosi del giro, narratore sconvolto di momenti realmente vissuti.
Un capolavoro postumo, dicevamo, di una scena alternative e post-grunge che mai ha saputo riconoscere a Ed Sloan e ai Crossfade quella che, a conti fatti, fu una rinascita creativa e artistica totalmente imprevedibile.