Ha vinto la Targa Tenco come miglior album italiano del 2006 ed è stato giudicato secondo miglior disco nella categoria “World” dalla rivista Mojo (l’ha sopravanzato “Savane” di Ali Farka Touré). Riconoscimenti più che meritati, e quel che sconcerta di più sono le oltre 80.000 copie vendute in Italia di “Ovunque Proteggi“, tutto fuorché un’opera ‘semplice’. Vinicio si supera, scrivendo quello che a tutt’oggi rimane il suo capolavoro, nonché il più grande disco di ‘cantautorato’ (espressione che va addirittura stretta) italico dell’ultimo decennio. Lucidità, razionalità e organicità di scrittura van tutte allegramente a farsi fottere, e in queste 13/14 composizioni (il morboso e patologico “Il Rosario de La Carne” si mescola senza soluzione di continuità con le truculente enumerazioni di “Il Colosseo”) regna un senso di profonda e positiva anarchia. Ci sono le atmosfere tipiche del Capossela di “Il Ballo di San Vito” (1996) e “Canzoni a Manovella” (2000): “Dalla Parte di Spessotto”, “Medusa cha cha cha”, “Nel Blu”, “Dove Siamo Rimasti a Terra Nutless” e la title – track sono ottimi esempi in tal senso. Ma accanto ad essi spuntano episodi agghiaccianti per follia profetica e arcaica potenza di suggestione: la biblica “Non trattare” (viene utilizzato persino lo Shofar, corno di montone utilizzato nella musica sacra ebraica) lascia subito spazio all’apoteosi ellenico/barbarica di “Brucia Troia”, in cui è perfetto l’inserimento del canto tradizionale sardo di Gavino Murgia e dei tre tenores di Mamoiada. L’apice tragico rimane “S.S. dei Naufragati”, ossia “La ballata del vecchio marinaio” di Coleridge riletta con sensibilità greco/latina. Da brividi. Che l’artista sia poi diventato un totem degli hipster agghindati con giacca di velluto e annesse toppe sulle maniche è irrilevante.
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